Giosuè Carducci, un personaggio il cui nome ancora oggi è ovunque: vie, istituti, libri di storia, ma soprattutto memoria. Da quella che appare una vita quasi perfetta emergono particolari sconosciuti, segreti mai confessati o forse solo lasciati in eredità in alcune righe dei suoi scritti, come enigmi da decifrare. Giosuè Carducci è il più grande scrittore italiano dopo l’unificazione nazionale. Nato a Val di Castello, in provincia di Lucca, il 27 luglio 1835, ebbe un’enorme influenza sulla scuola italiana, formando migliaia di professori e insegnanti. Nel 1906 è stato il primo italiano a ricevere il premio Nobel per la letteratura. Secondo molti, Carducci fu, con Garibaldi e Vittorio Emanuele II, uno dei principali artefici dell’unificazione civile e morale della nuova Italia. Alcune delle poesie di Carducci sono tutt’oggi tra le più belle mai scritte, contenute in “Rime nuove” e “Odi barbare”. In “San Martino”, il poeta descrive un borgo della Maremma toscana in un’atmosfera festosa nel giorno di San Martino, che segna la fine del lavoro nei campi, e che si contrappone alla malinconia dell’autunno, denso di nebbia, che copre gli alberi spogli e secchi sui colli. Quasi un quadro impressionista, nel quale le pennellate di luce e colori sono sostituite da immagini e metafore. Ma la vita di questo grande uomo italiano è costellata di momenti da chiarire, una serie di misteri fittissimi. Il padre Michele, un chirurgo appartenente alla Carboneria, costretto a cambiare continuamente residenza, si fermò per dieci anni a Bolgheri, frazione di Castagneto. Carducci in quei luoghi trascorse gli anni più belli della sua vita. Poi, purtroppo, le cose cambiarono… La prima tragedia in casa Carducci esplose a Firenze, la sera del 26 luglio 1850. Giosuè e il fratello Dante furono arrestati perché avevano aggredito il padre impugnando un ferro. Secondo un racconto della polizia datato 26 luglio, Michele Carducci aveva fatto arrestare i figli perché era contrario alle loro idee repubblicane, ma poi implorò che rilasciassero il minore, Dante, meno colpevole. Giosuè invece rimase rinchiuso: una punizione durissima per un adolescente, che compì il suo quindicesimo compleanno in cella di forza, un’esperienza terribile. Era stato arrestato per un conflitto politico e uno scontro fisico con il padre, su denuncia del padre stesso, nei confronti del quale maturò un senso di risentimento che consegna a frasi famose: “Prego Dio che perdoni il male che ha fatto a mia madre e a me.” Dunque, abbiamo un Carducci che comprende di doversi dedicare allo studio per nascondere quell’altro vero Giosuè Carducci: il ribelle, il politico rivoluzionario, capace di scontrarsi col proprio padre. Giosuè Carducci, un genio con un piede nello studio e un altro nella ribellione, un volto angelico ma dal profilo ombroso e complesso. Il conflitto col padre è come quello con le istituzioni, la monarchia e lo Stato. In alcuni componimenti si rivolse alla madre, invocandola “madre e amica”, l’unica ad avere capito i suoi tormenti, e mai dedicò una sola parola al padre… Il peggio, però, doveva ancora succedere: la mattina del 6 novembre 1857, una disgrazia si abbatté sulla famiglia Carducci. Il fratello Dante venne infatti trovato accasciato sulle scale di casa: una lama di ferro chirurgico gli aveva trafitto un polmone e aveva raggiunto il cuore. Giosuè scrisse che il fratello spirò dopo un quarto d’ora di sofferenze. Il magistrato non aprì mai un’inchiesta, avallando la tesi del suicidio per delusione d’amore, ma non venne effettuata alcuna autopsia né alcun rapporto ufficiale. Da alcune lettere si comprende che Giosuè non seppe mai, o finse di non sapere, che il ferro si era conficcato nella schiena, e che quindi non poteva trattarsi di suicidio. La morte di Dante ancora oggi è avvolta nel mistero (era forse il padre il vero colpevole?). Per Giosuè questo fu solo il primo di una serie di lutti. Nel 1865 morì a pochi mesi dalla nascita il suo primo figlio, Francesco (chiamato così in onore del poeta Francesco Petrarca). Il secondo figlio maschio, Dante (che portava il nome del fratello), morì nel 1870 all’età di tre anni, come ricorda nella poesia “Pianto antico”: era il bambinetto che tendeva la pargoletta mano al dolce melograno dai bei vermigli fiori… È il canto di tutte le creature, il dolore della perdita, antico e primordiale quanto lo è l’umanità. Nell’“Inno a Satana”, scritto nel 1863 ma pubblicato due anni dopo, Carducci attraversa il massimo periodo di ribellione e anticlericalismo. La poesia è il mezzo scelto dal Carducci per reagire attivamente nella società, considerando l’arte uno strumento potentissimo di progresso sociale. Satana e la locomotiva sono per il poeta il simbolo del progresso che distruggerà le disuguaglianze e le superstizioni sociali. Benché Carducci non abbia potuto prendere parte alla lotta per l’unità d’Italia, con la poesia vuole combattere come i garibaldini fecero con la spada: una “chitarronata”, definita dallo stesso, che sostituisce la spada e che muove ai cambiamenti, al progresso, personificato dalla figura di Satana, che si contrappone alle false credenze religiose, che rendono gli uomini “molli”, inerti, immobili, moralisti. La luce della ragione, la gioia di vivere, il progresso sono alla base dell’“Inno”, concepito come celebrazione della democrazia e della razionalità. Ma tale tema del progresso sociale è vivo nella produzione giovanile: quel treno visto come “bello e orribile mostro” in età adulta viene definito “empio mostro”. Nella poesia “Alla stazione in una mattina d’autunno”, la vita moderna e il progresso tecnico sono sinonimi di vuotezza, tedio… Venuto meno l’entusiasmo combattivo e polemico del giovane Carducci, dodici anni dopo lo stesso difende il mondo interiore travolto e stravolto dall’industrializzazione. Questo atteggiamento è ripreso da molti cantautori italiani illustri, tra cui Francesco De André, che in “Canzone di maggio” contesta il sistema capitalistico, accusandolo di produrre sfruttamento e ingiustizie sociali e di manipolare le coscienze. Nella poesia del Carducci, il poeta ammette che, se l’uomo vuole sopravvivere al cambiamento e alla tecnologia (aggiungerei io anche all’intelligenza artificiale), non può che abbandonarsi alla noia… Come a dire: riprendiamoci i nostri tempi, quelli dettati dal ritmo del nostro “umano” cervello, quelli dettati dalla natura della madre terra, fatta di cicli, attese, arrivi, partenze, in cui non è importante il “prodotto finito” (simbolo del progresso), ma l’individualità, considerata unica e speciale in ogni sua parte. Carducci è modernissimo, attualissimo, assolutamente indispensabile per la crescita culturale e umana di ognuno di noi. È la storia di un uomo che attraversa sventure di ogni sorta, ma che rimane fedele a se stesso, che lotta continuamente contro i propri demoni, tenendoli a bada, cercando di realizzare un mondo più equo attraverso la sua arte, mettendola a disposizione degli altri. È un messaggio di speranza quello che ci lascia: un auspicabile futuro migliore del presente, un ritorno al nostro mondo interiore. E come canta Battiato: “si può sperare che il mondo torni a quote più normali… che possa contemplare il cielo e i fiori, che non si parli più di dittature…”
Ringrazio la redazione tutta del giornale digitale ‘U SCRUSCIU per avermi dato la possibilità di scrivere liberamente, aprire il mio cuore e manifestare le mie emozioni.
Grazie a tutti.
di G. Davì
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